A proposito di Facebook, App e Big Data

Un collega e amico ha lanciato una provocazione interessante. Dopo aver fatto un paio di giri con le biciclette che si noleggiano a Milano per pochi centesimi al minuto utilizzando il telefono cellulare, si è posto una domanda tutt’altro che stupida e ha pubblicato questo articolo dal titolo Dati personali “rubati”: cara App, ci fai soldi? Bene, paga anche me.

Non condivido le conclusioni di Francesco Facchini, ma è indubbio che ci stiamo mettendo addosso un numero sempre maggiore di sensori, consegnando alla rete un numero impressionante di dati che vengono utilizzati per creare valore, stabilire prezzi di prodotti e servizi in qualsiasi angolo del mondo. Indubbiamente manca trasparenza e molti utenti non sono assolutamente consapevoli.

La questione è pruriginosa e mi costringe a infrangere una delle regole sacre di un certo giornalismo, quella che Michael (Jeff Goldblum) nel Grande freddo sintetizzava così: “Abbiamo una sola norma editoriale: non scrivere niente di più lungo che l’uomo medio non legga durante una cacata media…”.
Una regola ancora più tristemente esaltata dai social network. Temo che queste nostre osservazioni, quindi, raggiungeranno una platea numericamente modesta, ma, come leggerai alla fine, qualificata.

Questione interessante e complicata, dicevamo. Non conosco chi possieda le competenze per dirimerla. Certamente non io, ma provo lo stesso a dare un contributo. Non credo che la soluzione da te proposta sia praticabile e, anche qualora lo fosse, possa considerarsi risolutiva. Anche se chi guadagna interpretando e vendendo i dati che più o meno inconsapevolmente gli fornisco, mi stornasse una parte dei suoi guadagni, non ne ricaverei un beneficio economico interessante.

Nei giorni scorsi, scorrendo il sito di Filomena Pucci, ex autrice televisiva momentaneamente pentita, mi sono imbattuto nell’intervista a Federica Fusco, 24 anni, che ha lanciato in Italia un nuovo motore di ricerca, con l’obiettivo di condividerne i guadagni con progetti sociali, culturali, ecologici.

“Non tutti sanno che i motori di ricerca guadagnano in media dai 30 ai 50 euro l’anno per ogni utente che si connette – ha spiegato Federica. – Con Lilo abbiamo creato un sistema che ci permette di ridistribuire il 50% di questi guadagni.”

Non ho verificato se le cifre indicate siano corrette, ma considerato il modello etico scelto dai creatori di Lilo, le prendo per buone. Ora, se anche fossero un centinaio le applicazioni che utilizzo e tutte si rifacessero, come Lilo, al progetto francese La rivoluzione del colibrì, (descritto nell’ebook del collega Andrea Paracchini) l’uccellino che seppur minuscolo, davanti all’incendio della foresta decide di portare con il suo becco dell’acqua goccia per goccia, per provare a spegnerlo, mentre tutti gli altri animali scappano impauriti, al massimo potrei contare sulla metà di 5.000 euro l’anno. Risolvendo ben poco.

Sulla mancanza di trasparenza, hai perfettamente ragione e mi piace la provocazione, ma non credo che le App cacceranno mai un euro in cambio dei nostri dati.
Piuttosto lancio un’altra provocazione. Avviamo una class action nei confronti di Facebook. o meglio, cerchiamo di capire se esistano gli estremi per avviare una class action nei confronti di Facebook che mi “vende” come testimonial inconsapevole dei suoi inserzionisti pubblicitari?

Avrai notato che sempre più spesso FB segnala post e pagine sponsorizzate dicendoti che piacciono a un tuo amico. Sono certo di non aver mai espresso il consenso affinché potessero divulgare a mia insaputa le mie preferenze e sono sicuro che lo stesso valga anche per tutti gli utenti. Già questo rappresenta una pratica illecita. Non puoi usarmi come testimonial di qualcosa senza pagarmi o senza che l’abbia scelto. Se acquisto una maglietta con un bel marchio in evidenza, ne divento testimonial involontario, ma consapevole. Il mio acquisto, comunque, non autorizza la marca in questione a costruire una comunicazione nella quale afferma che mi piacciono i loro prodotti. Ma c’è di più! Ho fatto un po’ di verifiche e il 90% degli amici che mi avrebbero consigliato un prodotto o un servizio non lo conosceva neppure e quindi non poteva aver lasciato alcun “mi piace”. Il 10% non si ricordava con certezza.
Se leggo che ti piace un prodotto in qualche modo legato alla mia attività di mobile journalist, considerandoti il guru italiano della materia, corro subito a informarmi. Se scopro che non è vero che ti piace, che non lo conosci neppure o, peggio, non lo consiglieresti mai, sono stato truffato.

Il fatto è ancora più spinoso se si utilizza il nome di qualcuno, come noi, iscritto a un Ordine professionale che vieta di fare pubblicità a chicchessia, escludendo soltanto iniziative benefiche e senza fini di lucro.
Mi piacerebbe conoscere il tuo parere in proposito. Intanto, per valutare se sia plausibile una class action nei confronti del colosso diretto in Italia da Luca Colombo (che invito pubblicamente a spiegare la posizione dell’azienda), chiedo un approfondimento ad alcuni avvocati, all’ordine dei giornalisti e vorrei sapere cosa ne pensano i tanti colleghi che sperano di guadagnare utilizzando Facebook per costruirsi una professional identity, in qualche modo monetizzabile.

Andrea Fontana

L’invito a esprimersi sulla questione, per ora, è stato inviato a:
Luca Colombo, Country Manager Facebook Italy
Alessandro Galimberti, presidente Ordine dei giornalisti Lombardia
Franco Abruzzo, consigliere nazionale Ordine dei Gornalisti
Alessandra Ferreri, senior associate presso Masotti&Berger Studio Legale
Sabrina Della Valle, Tributarista presso Studio Della Valle
Marcella Caradonna, Presidente Ordine Dottori Commercialisti di Milano
Arnaldo Cogni, avvocato studio legale Bragato – Cogni – Jannuzzi
Giorgio Bragato, avvocato studio legale Bragato – Cogni – Jannuzzi