Fukushima, la catastrofe non è ancora finita

11 marzo 2011. Sono passati dieci anni dal disastro di Fukushima, quando un terremoto di magnitudo 9 ha causato lo tsunami che ha distrutto la centrale nucleare diventata tristemente famosa.

I tre noccioli del reattore si fusero, liberando gas di idrogeno e rilasciando nell’ambiente ingenti quantità di materiale radioattivo. Una serie di eventi catastrofici che ha causato la morte di oltre 15mila persone.

Ancora oggi i livelli di radiazione superano in alcune zone di 100 volte il limite raccomandato. Più di 232 miliardi di euro sono già stati spesi in progetti di ricomposizione del territorio negli ultimi 10 anni, con gli ordini di evacuazione rimossi solo parzialmente in alcune aree.

In totale sono state evacuate oltre 180 mila persone. Il processo di decontaminazione della regione deve ancora riguardare un’estensione di 337 chilometri quadrati.

L’intenso programma di opere in corso per decontaminare le aree colpite e dismettere l’impianto di Fukushima, secondo le stime del gestore dell’impianto durerà fra 30 e 40 anni. Si prevede una spesa complessiva di oltre 625 miliardi di dollariIl disastro di Fukushima è considerato l’incidente nucleare più grave dopo quello di Černobyl’ del 26 aprile 1986.

Dibattito sullo smaltimento delle acque radioattive

Un acceso dibattito da oltre tre anni riguarda lo smaltimento delle acque radioattive utilizzate per  raffreddare i reattori. Dopo la contaminazione, l’acqua viene stoccata in quasi mille serbatoi. La Tokyo Electric Power (Tepco), la società che gestiva la centrale e ora è stata incaricata del suo smantellamento, ne sta costruendo nuovi serbatoi e ha previsto di stoccare 1,37 milioni di tonnellate di acqua, ma ha annunciato la scorsa estate che lo spazio si esaurirà nel 2022.

Intanto i tempi preventivati continuano a slittare (i lavori per allontanare il prodotto della fusione del nocciolo sul reattore 1 inizieranno nel 2027, quelli sul reattore 2 nel 2024) nel frattempo il sito deve essere continuamente raffreddato e l’equivalente di 170 tonnellate di acqua radioattiva vengono prodotte giornalmente.

Il governo pensa a rilasciare acqua radioattiva in mare

Il governo giapponese è sempre più orientato a rilasciare il liquido in mare. Questa sarebbe la soluzione migliore indicata da una commissione di esperti per smaltire le acque contaminate. Greenpeace contesta questa scelta e continua a ribadire che l’acqua trattata è ancora a tutti gli effetti contaminata dal Carbonio-14 (C-14), dallo Stronzio-90 e da notevoli quantità di trizio (isotopo radioattivo dell’idrogeno).

Per molto tempo il governo del Giappone e la Tepco – ha scritto Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia – hanno sostenuto che l’acqua di trattamento conterrebbe solo Trizio, mentre una analisi indipendente svolta da Greenpeace, oltre a un recente rapporto della stessa Tepco, ha invece rivelato come vi sia presente anche C-14. Cosa prevedibile, dato che il sistema di trattamento Alps non è stato progettato per rimuovere quest’ultimo elemento”.

Fin dall’inizio delle operazioni di bonifica Greenpeace si è opposta all’utilizzo del sistema Alps gestito da operatori nipponici, suggerendo invece di affidarsi alla tecnologia dell’azienda statunitense Purolite, considerata la migliore disponibile perché in grado di ridurre le concentrazioni di radioattività a livelli non rilevabili.

Hanno voluto risparmiare sui sistemi di decontaminazione e anche ora vorrebbero scegliere l’opzione meno costosa – conclude Shaun Burnie, esperto nucleare di Greenpeace Germania.- La politica del governo giapponese di scaricare scorie nucleari nell’Oceano Pacifico non si basa su principi scientifici o di protezione ambientale e non ha alcuna giustificazione”.

La fondazione Solar Impulse promuove la mobilità sostenibile

Qualcuno ricorda Solar Impulsel’aereo alimentato esclusivamente da energia solare che ha completato il giro del Mondo?

Bertrand Piccard e André Borschberg, dopo aver smentito le previsioni negative di molti inguaribili scettici, hanno promosso in Svizzera il piano energetico che ha sancito l’uscita dal nucleare e oggi Solar Impulse è anche una fondazione che sta promuovendo mille soluzioni efficienti per una crescita economica pulita.

Soluzioni in grado di proteggere l’ambiente in modo redditizio e portarle ai decisori per aiutarli ad adottare obiettivi ambientali e politiche energetiche più ambiziosi.

Sì, perché Bertrand Piccard, contrariamente a quanto sostenuto per anni dalla maggioranza degli ambientalisti, è sempre stato convinto che la soluzione del cambiamento climatico – piuttosto che un problema costoso – è una fantastica opportunità di mercato.

Bertrand non perde occasione per evidenziare l’assurdità dei dispositivi e dei sistemi obsoleti e inquinanti che stiamo ancora utilizzando e promuovere i vantaggi delle tecnologie efficienti già esistenti per motivare i governi e le industrie ad agire.

“La protezione dell’ambiente diventerebbe una realtà solo se fosse percepita come economicamente sostenibile e non richiedesse sacrifici finanziari o comportamentali. Oggi esistono soluzioni efficienti che possono stimolare la crescita economica, riducendo allo stesso tempo il nostro impatto sul pianeta”, ama ripetere.

Una delle prime azioni della fondazione Solar Impulse è stata quella di promuovere uno studio per capire le abitudini di mobilità dei giovani di età compresa tra 18 e 34 anni residenti nelle aree urbane europee e del Nord America.

Lo studio avviato nel 2019 è stato ripetuto su un campione ridotto nell’autunno 2020 per capire come i giovani vedono il loro stile di vita e mobilità in un mondo post-COVID.

Europa (Parigi, Nantes e Madrid) e Nord America, forniscono approfondimenti da due aree geografiche in cui il ruolo delle automobili è molto diverso.

In un trend book la mobilità di domani e le nuove generazioni

I risultati di questa indagine qualitativa sono stati riassunti in un trend book, che fornisce alcune chiavi per comprendere meglio le sfide della mobilità di domani viste dalle giovani generazioni.

Ne sono emerse QUATTRO importanti intuizioni:

  1. GEN Z è più pragmatico che idealista. La prima generazione veramente multimodale: Impegnati, ma non utopici, i giovani intervistati cercano prima di tutto di soddisfare le loro esigenze in termini di convenienza e costo. Quindi apprezzano naturalmente i modi di trasporto che inquinano meno e sono più inclusivi. Tuttavia, rimangono attaccati all’idea di possedere un’auto come le generazioni precedenti, a condizione che sia pulita.
  2. Questi nativi digitali sono la prima generazione ad abbracciare completamente la multimodalità. Vogliono tutti i mezzi di trasporto. Hanno la mentalità appropriata, un facile accesso a vari modi di trasporto, l’agilità di scegliere quello giusto per l’occasione giusta e la volontà di cambiare le regole del gioco. COVID ha ostacolato la mobilità. Ma ha anche accelerato tendenze come la mobilità scelta, l’uso della bicicletta, il camminare e le auto pulite I riflessi protettivi emersi con COVID hanno evidenziato un ritorno alle modalità di trasporto individuali e una crescente sfiducia nei confronti del trasporto pubblico. Ma COVID è stato anche un acceleratore di tendenze con un aumento dell’uso della bicicletta e della camminata. Preferiscono un’attività fisica all’aperto perché economica e sostenibile con benefici per la sicurezza e la salute. Al di là dei mezzi di trasporto, la pandemia ha accelerato la transizione verso un tipo di mobilità meno costrittiva e più volontaria. Ciò significa riconsiderare se è necessario andare in ufficio ogni giorno, limitare i viaggi non necessari – quindi adattare le modalità di trasporto – e vivere più a livello locale.
  3. Questa generazione vuole cambiare le cose, senza rinunciare alla nozione di piacere. I giovani di 18-34 anni sono favorevoli a una vita entro un raggio di 15 minuti dalla loro casa. Ma vogliono ancora scoprire il mondo, in un modo diverso, mettendo in discussione la necessità di ogni viaggio, COVID ha fortemente influenzato la mobilità quotidiana. Questi giovani abitanti delle città vogliono liberarsi dai vincoli della mobilità mattutina e serale, trovare uno stile di vita da villaggio nel loro quartiere ed essere in grado di organizzare la loro vita quotidiana entro un raggio di 15 minuti dalla loro casa . Questa è un’opportunità per concentrarsi su modalità di trasporto salutari e sfruttare l’opportunità di lavorare da casa. Nella loro mobilità, come nel loro stile di vita, le nozioni di piacere e significato rimangono fondamentali. È con la stessa mentalità che prendono in considerazione i viaggi a lunga distanza e vogliono continuare a viaggiare per scoprire il mondo. La loro mentalità sostenibile li porterà a viaggiare meno spesso, ma per viaggi più lunghi. Immaginano “viaggi ibridi” dove lavoro e turismo sono utilmente mescolati e goduti.
  4. I giovani si aspettano molto dalle autorità pubbliche, dalle città e dalle aziende per agire insieme e accelerare il cambiamento. Questa generazione è pronta a fare molti cambiamenti nel modo in cui utilizza la mobilità. Ma quando si tratta di infrastrutture, innovazione, pianificazione urbana e sicurezza, si sentono impotenti ad agire. Si aspettano che gli stakeholder pubblici e privati si mobilitino e li ascoltino. Le aspettative sono diverse in Europa e Nord America con maggiore sfiducia in Europa, e in particolare in Francia, sull’uso dei dati personali e sulla scelta degli operatori. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, i giovani si aspettano che i datori di lavoro siano coinvolti e promuovano un diverso tipo di mobilità per i loro team, inclusi sussidi, lavoro da casa e infrastrutture condivise.

Questa generazione vuole essere parte del cambiamento e utilizzerà tutta la sua influenza per far accadere le cose come cittadini, dipendenti, clienti e utenti della mobilità.

Qui il report completo MovinOn_Mobility_Survey_Kantar.

Green washing, problema globale

Abbiamo parlato del green-washing e abbiamo raccontato di come per Eni sia diventato un mantra comunicativo. Il problema non è soltanto italiano, ma globale.

In un articolo dettagliato, The Guardian il 3 marzo scorso sottolinea come “tutto ciò che le principali compagnie petrolifere hanno fatto (con il tacito supporto di molti governi) è stato spostare la loro narrativa pubblica sulla crisi climatica dalla negazione all’illusione. Non insistono più che non c’è problema, perché hanno perso quell’argomento. “Net zero” è il loro tentativo di continuare l’attività come al solito senza rivolgere ciò che stanno facendo alle persone e al pianeta”.

Il titolo spiega bene il concetto: le compagnie petrolifere globali si sono impegnate a ridurre le emissioni nette. È una finzione. Il sommario rincara la dose: L’industria energetica è come un fumatore che passa da un pacchetto al giorno a due, ma afferma di smettere perché è passato alle sigarette con filtro.

“Vorrebbero farci credere che piantando alberi e utilizzando tecnologie di cattura del carbonio in gran parte non provate, costose e finora inefficienti, possono raggiungere lo “zero netto” e risolvere la crisi climatica, il tutto continuando a far crescere la produzione di combustibili fossili. Questo argomento è delirante e basato su una cattiva scienza”.

Questo il link all’articolo originale: https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/mar/03/global-oil-companies-have-committed-to-net-zero-emissions-its-a-sham.

Di quale transizione stiamo parlando?

Claudio De Scalzi Ad di ENI

Carbone, petrolio e gas hanno impresso un’accelerazione senza precedenti allo sviluppo tecnologico, ma sono stati pagati a caro prezzo. Il loro sfruttamento da parte dell’uomo ha indotto tre importanti effetti negativi, intrecciati tra loro: ha accentuato le disparità di accesso all’energia, aumentando le disuguaglianze; ha incrementato l’emissione di gas serra nell’atmosfera, aggravando il riscaldamento globale, e, di conseguenza, ha causato un peggioramento della qualità dell’aria, con conseguenze epidemiologiche”. Lo ha scritto il nuovo ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani in una rubrica, Sapiens, il ritmo del progresso, che curava per Repubblica. (https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/02/16/news/il_ritmo_del_progresso_una_specie_affamata_di_energia-287819377/)

Sembra incredibile, ma anche se tutti sanno che per risolvere il problema occorre tenere sotto terra i combustibili fossili, e tutti i leader si sperticano in commoventi dichiarazioni sul futuro dell’umanità, i medesimi leader continuano a concedere generosi sussidi per l’estrazione e il consumo di petrolio, carbone e gas, utilizzando addirittura 250 meccanismi di agevolazione. Non fa eccezione l’Italia, che negli ultimi anni ha drasticamente tagliato i sussidi all’energia pulita, ma che secondo un rapporto di Legambiente, pubblicato nel dicembre 2020, eroga complessivamente 35,7 miliardi di euro (21,8 miliardi sotto forma diretta e circa 13,8 miliardi in forma indiretta) di aiuti al comparto delle energie fossili. (https://www.legambiente.it/comunicati-stampa/stop-sussidi-legambiente-presenta-il-suo-rapporto-ecco-i-dati/)

Alcuni di questi sussidi sono stati addirittura introdotti nel 2020, come il capacity market, che prevede 20 anni di generosissimi incentivi per nuove centrali a gas, giustificati da ragioni di sicurezza del sistema; quando per la flessibilità e la sicurezza del sistema esistono alternative più economiche, efficienti e con ridotte o zero emissioni di gas serra.

Legambiente mette in evidenza chiaramente il paradosso:

I sussidi alle fonti fossili, come sottolineato da Fatih Birol, capo economista dell’International Energy Agency, è che sono oggi il principale ostacolo allo sviluppo delle rinnovabili e di interventi di efficienza energetica che sarebbero competitivi in ogni parte del mondo, ma che invece vedono privilegiare con carbone, gas e petrolio, resi artificialmente economici dagli aiuti pubblici”.

Così non stupisce che ENI, forte di una politica aziendale in grado di imporre ai governi le proprie scelte, abbia presentato il 19 febbraio scorso un piano industriale, che contempla un aumento della produzione di idrocarburi, anche se sposterà il peso sul gas. L’insistenza sui fossili viene spacciata per un trend salutare. Infatti, afferma l’Ad Claudio De Scalzi: “il metano costituirà un importante sostegno alle fonti intermittenti nell’ambito della transizione energetica”. (https://www.qualenergia.it/articoli/eni-punta-emissioni-zero-2050/).
Insomma una decarbonizzazione a metano!

 

La metanizzazione degli ultimi decenni rappresenta una componente importante del global warming, a causa del preoccupante aumento della concentrazione in atmosfera di CH4 , dovuto alle perdite per estrazione, distribuzione e usi finali. Gli ultimi studi, infatti, attribuiscono al metano una responsabilità nel produrre l’effetto serra circa 10 volte maggiore di quella della CO2.

Dov’è finito il discorso di Draghi in Parlamento? Si chiede Mario Agostinelli nel blog che cura per il Fatto Quotidiano. (https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/02/24/abbiamo-trentanni-per-diventare-carbon-neutral-ma-senza-trucchi/6110632/)

Me lo domando anch’io. 

 

Greenwashing, non facciamoci prendere in giro!

Il direttore di ItaliaNotizie24 mi ha chiesto di curare una rubrica settimanale su ambiente, energia, mobilità sostenibile e tutto ciò che ruota intorno alla transizione ecologica. Mi ha lasciato carta bianca, quindi ho accettato.

Greenwashing, non facciamoci prendere in giro!